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Quel profumo mi perseguitava. Aleggiava nell’aria, prendendomi in giro, conducendomi verso un’oscura fine. Corsi per i corridoi rivestiti da tappezzerie rosse, la mia camicia da notte mi faceva provare i brividi dal freddo. La luna piena mi illuminava la via, mentre continuavo a procedere, cercando l’origine di quel profumo. Negli angoli bui, oltre le porte in legno massello, in camere che una volta erano piene di risate, ma anche di atti orribili. Ad ogni passo quell’odore era sempre più forte. Rose. Una punta di zenzero e agrumi. Potevo giurarci, da quanto famigliari mi erano.

Poi entrai in una camera. Una vecchia stanza che si differiva dalle altre. Una solitaria candela stava sul grande letto a baldacchino. La luce che produceva rivelava il resto della buia e nostalgica stanza. Il pavimento era freddo, il legno leggermente deformato, e i miei nudi piedi persero quel poco di calore che erano riusciti a trattenere. Un grande camino per il fuoco si trovava dalla parte opposta del letto, spento, privo di vita. E, sopra di esso, un enorme ritratto dominava la stanza. Il  dipinto di una donna seduta, che indossa un abito verde scuro, di molti decenni prima. I suoi capelli erano annodati in uno chignon, la sua pallida pelle sembrava perla, e i suoi occhi erano di stazzati, freddi e crudeli.

Quegli occhi parevano osservarmi, seguirmi, mentre camminavo vicino al letto, per poi ritrovarmi ai suoi piedi. Una sontuosa coperta rossa, sbiadita, copriva il materasso. La candela lottava per riuscire a rimanere in equilibrio: divenne chiaro che qualcuno si trovava lì nel letto.

Non ero in grado di vedere il volto della persona, il corpo era coperto dalla testa ai piedi dalla rossa coperta, avvolto in essa. La vista del contorno che creava la stoffa impaurì il mio cuore – non osai spostare la coperta, non sapevo sei avrei potuto sopportare lo shock. E ancora, mi punse quella sensazione di famigliarità, un ricordo che si nascondeva nell’ombra fuori dal mio sguardo, che si rifiutava di venire a galla. Il pungente profumo di rosa era ancora più intenso di quanto non lo fosse prima, mentre percepivo ancora su di me il maligno sguardo del ritratto alle mie spalle. Sentii un altro tipo di odore; come di qualcosa che era rimasto a degenerare per anni in quella stanza, parzialmente coperto però dal dolce profumo di rose.

Mentre fissavo il contorno, dalla testa ai piedi, della figura del corpo che si trovava sotto quella coperta, la puzza crebbe. Ad ogni respiro mi veniva offerta una miscela di odore di rose e di qualcosa di umido, torbido, come l’acqua stagnante dopo un acquazzone. C’era qualcosa di marcio in quella camera, con me. L’odore rancido divenne così intenso che quasi potevo sentirne il sapore. Il ricordo nascosto minacciò di liberarsi dalle proprie catene. Dovevo fuggire. Correre. Andarmene da quella stanza, da quella casa, uscire fuori dove potevo respirare di nuovo.

Camminai a passo svelto verso la porta da cui ero entrata. Era bloccata. Girai più volte la maniglia, la sua forme sferica coperta di vernice marrone scuro. Il meccanismo della serratura echeggiava dalla porta in legno, con rumori che sembravano distanti, opponendosi con resistenza a me; ero prigioniera in quella solitaria stanza, in un luogo dove la dolce aria di fiori si mischiava a quella di morte.

Iniziai a colpire la porta. Gridando. Urlando. Ma le mie preghiere rimasero senza risposta. Si dissolsero per tutta la solitaria abitazione, la casa della mia famiglia, che non visitavo da quando avevo sette anni. Un luogo che nascondeva oscuri ricordi, ferite che erano diventate sempre più profonde, il tutto sbiadito dal procedere degli anni. Alla fine mi arresi. Fermai le mie suppliche, appoggiando la fronte sulla legnosa e fredda superficie della porta chiusa a chiave, cercando di calmarmi.

All’improvviso sentii un rumore.

Un primo suono, seguito successivamente da altri tre. Era come un cric, un rumore scricchiolante. Mi voltai lentamente per vedere cosa fosse, ma la camera era identica a prima. Il corpo giaceva ancora nel letto, con le coperte che contornavano perfettamente la sua forma. Lo sfarfallio della candela era ancora presente, così come le ombre danzanti che essa creava per tutta la camera. Davano un senso di movimento, e per un momento ho osservato il quadro, gli occhi di quella donna sembravano guardarmi attraverso, da sopra quel buio camino, ed era come se il suo volto avesse un che di riconoscibile.

Rabbrividii, pensando che fosse solamente a causa del gioco di luci che davano quell’effetto. Udii nuovamente uno scricchiolio. Una serie di veloci cric!, come un’antica porta che non viene aperta da anni, che si muove lentamente nella notte. Non riuscivo a capire la fonte di quel suono. Il mio cuore accelerò mentre mi guardavo intorno, e per la prima volta notai, nella penombra, un vecchio armadio di legno, dal lato opposto della stanza.

Lo scricchiolio si fece sentire ancora; un terribile disagio iniziò a crescere in me ad ogni cigolio; mi rendeva perplesso e spaventato allo stesso tempo. Mi voltai di nuovo verso la porta e girai la maniglia il più forte che potei, ma la realtà non era cambiata.  Ero bloccata in quella stanza con un corpo in decomposizione sotto le coperte, e un suono scricchiolante che proveniva dall’interno dell’armadio. Un rumore che pareva organico, in qualche modo vivo, che si distingueva dalle contrazioni del pavimento di legno e le travi della casa. Suonava prodotto da qualcosa di naturale, ma allo stesso tempo era innaturale.

Un altro scricchiolio: sapevo che avrei dovuto dare un’occhiata a quell’armadio al di là della stanza. Ero terrorizzata da quello che avrei potuto trovare, ma l’attesa, la mera attesa di qualcosa che sarebbe potuta emergere da quella tomba di legno era troppo da sopportare. Volevo che quella notte tormentata finisse, volevo ritornare alla mia vita da adulta. Qualcosa mi aveva spinto a rivisitare la mia vecchia casa, ma ero sicura che, se avessi mai potuto ripercepire la fresca aria del mondo esterno, avrei maledetto quel luogo e non ci sarei più tornata.

Ricordi oscurati passarono davanti ai miei occhi ancora una volta. La famigliarità di quel profumo pungeva ancora il mio olfatto. La stanza… una terribile finestra sul mio passato. Non sarei stata torturata più a lungo, non sarei stata più presa in giro; dovevo sapere che cosa c’era dentro quel guardaroba.

Feci un passo avanti, muovendomi fino ai piedi del letto. Ero certa che il ritratto ancora mi fissava minaccioso, ma non osai incrociare il suo sguardo, i miei occhi rimasero incollati sull’armadio a cui mi stavo avvicinando. Lo scricchiolio pareva intermittente. Mentre ascoltavo con attenzione ogni mio passo, a volte venivo affiancata da quel brutto suono, altre volte venivo avvolta dal silenzio, un “rumore” notturno altrettanto spiacevole.

Quando raggiunsi una delle ante dell’armadio con la mia mano, stavo sudando freddo. La porta si spostò. Di poco, ma si mosse. Potevo vedere una piccola fetta di buio all’interno, una piccola striscia di aria nera, e percepivo come se un occhio vigile mi stesse osservando da lì dentro.

Lo scricchiolio rispose al mio avvicinamento, questa volta più forte di prima. Ma aveva acquisito una nuova caratteristica, come delle nocche che schioccano; ossa e legamenti che si spezzavano, arti che per anni non si erano mossi che si liberavano dall’inesorabile stretta del tempo. Allungai lentamente la mano a aprii con forza l’anta. Per un attimo, mi sembrò di notare due occhi nell’oscurità dell’armadio che mi sbirciavano, ma la luce della solitaria candela della camera colpì quel luogo buio. Non vidi nulla. Nessun vestito, nessun effetto personale, nessun paio d’inquietanti occhi, solo il vuoto di una vita.

Tirai un sospiro di sollievo, ma quando mi voltai verso la stanza rimasi inchiodata sul posto. Qualcosa era diverso. Qualcosa era cambiato. Non era il ritratto sul muro. L’amaro volto della donna guardava davanti a sé. Non era nemmeno il caminetto, era rimasto spento, la sua bocca avvolta dalla notte. Non era la porta dall’altro lato della camera, la mia unica via di fuga, ancora chiusa, senza dubbio bloccata da un qualche carceriere invisibile.

No, nessuna di queste cose era cambiata. Ma ciò che mi spaventava, ciò che strappò ogni padronanza che avevo di me, era quella figura che stava sotto le coperte. Quel morto e silente corpo che riempiva l’aria di profumi e di un’aura macabra.

Se n’era andato.

La coperta rossa era stata tirata in disparte, rivelandone le lenzuola di seta bianca sottostanti, e l’unica cosa certa era che quel qualcuno che era sdraiato lì aveva lasciato solo la sua impronta sul materasso, una contorno di un corpo ora mancante.

Rimasi senza fiato mentre lo scricchiolio si fece sentire una nuova volta, questa volta dal letto, ma non c’era più traccia del corpo. La stanza era vuota, eppure nell’aria si sentiva una certa compagnia. Qualcosa era lì. Mi guardai intorno, e fu allora che mi balenò in mente un pensiero. Un pensiero che sarebbe stato assurdo. Forse era uno spettro invisibile ad essere rimasto per tutto quel tempo sotto le coperte. La forma del corpo di una persona, ma invisibile all’occhio.

Creak.

Il suono si fece più vicino.

Creak.

Questa volta proveniva dai piedi del letto. Qualunque cosa fosse, stava lentamente camminando verso di me, le assi del pavimento si deformavano sotto il suo peso, segno che non ero solo.

Se solo avessi potuto vedere quella cadaverica cosa prima che mettesse le sue decomposte mani su di me. A quel pensiero saltai sul letto, non appena il fantasma fece un altro passo in avanti. Levai le coperte e le lenzuola dal materasso, gettandole in aria come una rete. Svolazzarono con il loro movimento, portando con loro quel dolce e rancido odore. Dopodiché si posarono, ma non sul pavimento, avevano coperto il cadavere ambulante, mostrandomi il suo contorno. Un abito di lenzuola bianche avvolto, indossato da qualcosa di orrendo.

Forse avrei dovuto lasciare che la cosa continuasse a camminare senza essere notata. La vista di un lungo drappo di stoffa che veniva verso di me quasi fermò il mio cuore.

Creak.

Creak.

Ogni invisibile passo portava con sé una paura della quale non avevo mai sperimentato un calibro simile prima di allora. E poi venne un fruscio, come se qualcosa si stesse muovendo sotto le lenzuola. Un movimento punzecchiante, e da quello che potei supporre erano due mani tese sotto quel velo, protese verso di me.

Inciampai all’indietro. Gridai, e così come lo feci la stanza si oscurò. La mia fuga mi aveva condotta dentro all’armadio. Le braccia della figura velata erano ormai quasi su di me, e la mia unica possibilità era tirare verso di me l’anta del guardaroba, per ripararmi da quel fantasma.

Il mio nuovo rifugio scosse violentemente, mentre lo spettro afferrò e tirò l’anta. Cercai di trattenerla con tutto me stesso, le mie dita che rimanevano in vista nella stanza che tenevano salda la presa su quel pezzo di legno, l’unica barriera tra me e quella marcia apparizione.

Ricominciarono ad inondarmi la mente i ricordi, quel buio armadio innescava una serie di dolorosi eventi che avevo seppellito nel mio profondo passato; i ricordi di una piccola bambina rinchiusa in luoghi bui. Cantine, soffitte, armadi… i ricordi di una bambina abusata. Picchiata. Derisa. Emotivamente torturata dal suo unico tutore. Il mio corpo ebbe delle convulsioni e rabbrividì quando mi si infiltrarono in testa le memorie della mia infanzia.

La furia dell’attacco cessò, il silenzio divenne il mio mondo. E sentii due parole, sussurrate.

Piccola… Sophie…

Le parole sembravano più un respiro che una voce, e in esse riconobbi l’interlocutore. Quella orribile donna che approfittò del suo incarico.

“Ero solo una bambina!” urlai a piena voce. “Come hai potuto?”

Continuai a tenere saldamente l’anta, in modo che lo spirito di mia nonna non la varcasse. Quando percepii un caldo respiro sulle mie dita, abbi la conferma di tutte le mie ipotesi. Una bocca, che fosse visibile o meno, doveva aver aleggiato sopra le mie dita per un attimo, espirando quell’aria viziata. Dopodiché qualcosa di umido leccò le mie dita per tutta la loro lunghezza; una lingua marcia. Non osai aprire l’anta. C’era poco che potessi fare. La tenni strettamente, mentre il fantasma della mia deviata nonna continuava a leccare la parte di pelle mia esposta.

Poi più nulla. Silenzio, di nuovo. nessun respiro. Nessun scuotimento delle ante. Nulla.

Dei denti grondanti di saliva morsero con forza le mie dita. Urlai in agonia, mentre essi scavavano sempre più a fondo, attraverso la pelle, per poi far scricchiolare le ossa. Al di là delle mie urla di dolore, percepii una risata di gioia, un sorriso sornione.

La storia si stava ripetendo a mano a mano che i ricordi riaffioravano alla mente, tramite quelle torture. Lei aveva commesso azioni tremende in passato. Cose maligne, malsane. Mi rinchiudeva nell’oscurità, mi picchiava, mi stuzzicava, e altro ancora. Il dolore di quei ricordi si mischiava al dolore che stavo percependo fisicamente, con quei denti che macinavano sempre più a fondo.

Basta!

Urlai dalla rabbia e spinsi in fuori l’anta dell’armadio, sbattendo la figura avvolta dalle lenzuola a terra. Le mie dita grondavano di sangue, ma almeno ora erano libere, così come me. Balzando oltre il letto, puntai nuovamente verso la porta chiusa. Gridai e piansi mentre lottavo contro quella porta, ma essa rimase ben bloccata. Non si mosse. Mi ribellavo e mi scagliavo contro la mia prigionia. Ma due mani mi raggiunsero da dietro, avvolgendo le loro dita ricoperte dalle lenzuola  attorno al mio collo.

Lottammo, con la sua morsa stretta attorno alla mia gola, soffocandomi il respiro. E in un attimo d’ira, un attimo di pura sopravvivenza, raggiunsi quella solitaria candela, appoggiata vicino al letto, e la gettai ai piedi di mia nonna, riuscendo a colpire il sudario in cui era avvolta. La stanza iniziò a bruciare. Il letto. Il dipinto. L’armadio… il mio ultimo ricordo guardava a fianco a me, guardava il cadavere di mia nonna che bruciava sul pavimento.

In seguito, mi ritrovai in piedi nel giardino di quella mia vecchia casa di famiglia, stordita, osservando quell’edificio collassare su se stesso, consumato dalle fiamme. E negli anni successivi, continuai a meravigliarmi di quello spettro nella camera, di quel cadavere nel letto. Ero ritornata nella casa dove avevo passato la mia infanzia solo per ispezionare le cose che mia nonna aveva lasciato, dopo essersene andata da questo mondo di mortali. Ma era evidente che non se n’era ancora andata per me. Dopo quella notte, finalmente, avevo davvero chiuso con lei.

[Racconto originale di Michael Whitehouse, per leggerlo cliccare qui | Traduzione italiana di Coffy ]


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Narrazione di FearOfDarkness

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