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La nonna dormiva ventidue ore al giorno nella sua stanza in fondo al corridoio, e la casa intera tremava per il suo russare di animale agonizzante, che spaventava i bambini e metteva in fuga i gatti del cortile, come il ruggito d'un predatore.

Quel russare insistente era la sola prova tangibile della presenza della nonna, nella villa. I suoi vestiti, un tempo numerosi quanto i giorni dei suoi molti anni, erano scomparsi dagli armadi; i cosmetici segreti, ridotti in polvere dentro i propri contenitori, erano stati buttati via, e i profumi pregiati, custoditi nelle fragili boccette, regalati ad altre donne, prima che perdessero la fragranza.

La sua prigionia durava ormai da così tanti anni che qualunque altra traccia di lei aveva fatto in tempo a sparire, e persino le fotografie scattate nel corso della lunghissima giovinezza, su cui la nonna contemplava la bellezza dimenticata nel tempo, erano nascoste sotto il suo materasso marcescente, e nessuno, eccetto ella stessa, le guardava più.



Nella camera era proibito entrare. Solamente il nonno, ritto e distinto, varcava due o tre volte al giorno la porta sottile che noi, talvolta, fissavamo per ore senza osare sfiorarla, e ne usciva solo parecchie ore dopo, spoglio della sua solita espressione austera, fiaccato dallo sforzo di rigirare nel letto la sua mastodontica moglie, frustrato dal tentativo spesso vano di farla mangiare, annichilito nello spirito dall'orrore sempre rinnovato di vedere la fidanzata radiosa dei suoi diciassette anni marcire da viva tra le stesse lenzuola dove avevano concepito i loro quindici figli, che erano i nostri genitori e i nostri zii, e che avevano, ormai da due decenni, dimenticato i lineamenti della splendida madre, oramai comunque irriconoscibile.



Noi, i bambini, discendenti inconsapevoli di quella nonna mitologica, giocavamo silenziosi nei corridoi e nelle sale buie della villa, attenti a non urtare le preziose suppellettili e a non scostare le pesanti tende intrise di polvere, abituati, ormai, a muoverci nella penombra della tristezza dei nostri avi. Eravamo numerosi e piccoli come formiche, e talvolta qualcuno di noi si perdeva tra le pieghe di velluto d'una tenda, o cadeva nella trappola d'uno sportello aperto, e faceva in tempo, lì dove si trovava, a scivolare nell'abisso della paura, della fame e della disperazione, prima che un altro di noi lo trovasse, annaspando nel buio di stanza in stanza.



Lei, non l'avevamo mai vista; era una presenza rumorosa e invisibile, che popolava i nostri sogni notturni e le nostre più inquietanti fantasie diurne, ma non la conoscevamo, né avevamo mai realmente pensato a lei come ad una nostra familiare, nelle cui vene suppuranti scorreva anche il nostro sangue.

Ciò aveva contribuito ad alimentare una irresistibile curiosità di varcare la soglia proibita, intrigati fino alla pazzia dall'idea, partorita dalle nostre fervide menti, che la nonna fosse morta in vita sotto le cure inclementi di suo marito, che quel russare perenne non fosse in realtà il suo respiro, bensì il ronzare feroce di mosche che se la mangiavano e che, se fossimo entrati, avremmo visto un sorriso di teschio rivolto verso i nostri volti paffuti, orbite vuote ci avrebbero fissati, e avremmo visto la mano ossuta della mummia tendersi verso di noi, nella disperata ricerca d'un contatto.



Ma il nonno non permetteva a nessuno di entrare, e neppure ai più fidati membri della servitù di occuparsi di lei; era sempre e soltanto lui ad accorrere, quando improvvisamente quel russare senza posa s'interrompeva per un po', lasciando il posto prima al gemito accorato, poi all'ululato agghiacciante che ci feriva le orecchie, ci faceva rizzare i peli sulle braccia e frantumava i bicchieri nelle cristalliere, quel verso inumano che ricorderemo finché avremo vita, e che aveva lo scopo di chiamare a sé il compagno instancabile, che con una fierezza da guerriero s'incamminava verso la caverna della bestia misteriosa, e vi entrava quasi senza respirare.

Le volte che gli passavamo accanto, rapidi e silenziosi come ombre, tutti assorti nei nostri giochi spaventosi, il nonno ci guardava con un'espressione arcigna in cui solamente molti anni dopo, resi ormai anche noi simili a lui dagli sforzi, dai ricordi e dalla solitudine, avremmo riconosciuto la disperazione; a quelli tra noi che erano più magri e derelitti carezzava la testa con mano pietosa, e noi lo temevamo e lo amavamo, per la sua forza e per la sua compassione.



Ma, soggiogati dal fascino perverso del nostro stesso terrore, avevamo deciso di infrangere il solo divieto ch'egli ci avesse imposto, in una comunanza d'intenti assoluta che mai ci si sarebbe aspettata da un gruppo numeroso quanto il nostro.

Sapevamo che, qualora l'avessimo voluto, non sarebbe stato difficile per noi accedere all'antro che, già protetto dall'orrore che suscitava, non veniva mai chiuso a chiave. E non sapemmo mai se fosse giorno o notte, perché nessuno, in casa, lo sapeva, quando ci ritrovammo tutti davanti alla porta che, fino a quel momento, solo nei nostri incubi avevamo osato attraversare, stretti gli uni agli altri, tremanti di eccitazione, guidati dal ruggito tonante della belva addormentata. Ed effettivamente entrammo, o così ricordiamo, in quella stanza dove l'oscurità era troppo densa persino per i nostri occhi ciechi, dove il ronzio costante a cui da sempre eravamo abituati era così forte che ci tremava il cuore e dove l'odore del corpo della nonna era lo stesso dei fiori lasciati seccare nei vasi.



Solo quando i nostri occhi si furono abituati a quella nuova oscurità, la scorgemmo: una sagoma gigantesca, del tutto nascosta dalle pesanti coltri che la coprivano. La nonna stava sdraiata sul fianco destro, enorme, spaventosa, e il suo respiro era così sonoro, tangibile, che allora, e solo allora, ci convincemmo che lei fosse realmente viva. E a quel punto, ancora insoddisfatti, resi sicuri fino alla ferocia dal successo della nostra impresa, desiderammo vedere il suo viso, cosicché due di noi, con mano ferma, scostarono il lenzuolo; e possa Dio concederci di dimenticare ciò che vedemmo allora, il volto nero, tumefatto, solcato da rivoli d'un liquame scuro, le labbra che si schiusero rivelando una bocca fetida e sdentata, gli occhi neri, spaventosamente vivi, che si aprirono sui nostri volti atterriti. Un tanfo di putrefazione, tale e quale a come lo immaginavamo, si levò dal letto appena lei si mosse, e poi la nonna parlò, con una vocetta esile che sarebbe potuta appartenere ad uno qualunque di noi; ma non sappiamo cosa abbia voluto dirci, poiché in quel momento il primo di noi ritrovò la forza nelle proprie gambe, e gli altri lo seguirono, e tutti fuggimo, fuori di lì e fuori della casa, inseguiti dal rantolo incomprensibile che si trasformò nell'urlo selvatico che ci era familiare.

E ci precipitammo fuori, dove la luce ci accecò e noi ci disperdemmo, abbandonando vigliaccamente quella casa dove la Morte aveva dimenticato d'essere attesa, dove i mobili antichi gemevano e andavano in pezzi sotto la forza oscura della disperazione, e dove ombre di cui non avevamo mai nemmeno sospettato l'esistenza danzavano intorno alla matriarca marcescente, attendendo soltanto che il rumore insopportabile del suo sonno si fermasse per sempre.

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