Creepypasta Italia Wiki
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Come regola generale, non mi fidavo della gente conosciuta sulle chat.

E neanche dai siti di incontri. Men che meno, su qualsiasi altra piattaforma sociale. Ero una ragazza prudente e molto informata. Conoscevo buona parte delle leggende metropolitane e delle notizie finite sui giornali. Sapete, quelle che parlano di come le persone vengono adescate da qualche psicopatico sulle chat e poi, convinte ad incontrarsi. Sono storie che si sentono spesso in giro.

Il rischio è sempre in agguato dietro l’angolo.  Potresti trovare una persona fantastica con cui ti trovi bene a chattare, in un primo istante. Dopo qualche giorno, cominci ad accorgerti delle prime stranezze. Poi, dopo un paio di settimane realizzi con che tipo di persona hai a che fare. Per quanto mi riguarda, sono una frequentatrice abituale di chat.  Più o meno, ho iniziato all’età di quindici anni e, adesso ne ho ventidue. Lo so, voi direste che la vita là fuori è molto più eccitante. Piuttosto che passare le giornate con gli occhi incollati a uno schermo. Non fraintendetemi, ma faccio davvero fatica nel mondo là fuori a trovarmi degli amici. Sono sempre stata molto timida e introversa. A fatica riesco a guardare le persone negli occhi quando mi parlano. Sono anche molto ansiosa e soffro di agorafobia. Il fatto è che, vado nel pallone quando parlo con una persona nuova e mi blocco.  Ho cercato su internet il mio disturbo e, il primo risultato che Google mi ha sputato fuori era la “fobia sociale”. In effetti, potrebbe corrispondere al mio problema attuale. Non uso le chat per incontrare le persone, ma solo per parlare e passare il tempo. Soprattutto ora, che la mia migliore amica mi aveva piantata in asso e stavo cercando di superare il suo abbandono. Stavo passando un periodo difficile. Tornando al discorso di prima, quando ho affermato che: “come regola generale non mi fidavo delle persone conosciute su internet”; non a caso ho usato l’imperfetto. Perché sto facendo un piccolo strappo per una persona.

Tre mesi fa, ho conosciuto un ragazzo.

Si chiama Nathan e ha diciotto anni. Ha qualche anno in meno, ma è un dettaglio ininfluente. Specie perché da come ragiona e si esprime, potrei dargli qualche anno in più. Sin dall’inizio, abbiamo avuto un sacco di interessi in comune, tra libri, film, videogiochi, fumetti, serie televisive, musica. Parlavamo un sacco.

Parliamo un sacco.

Ogni tanto ci mandiamo anche delle foto. Soprattutto, io gli invio quelle del mio gatto. Sapete, siamo due gattari e lui non avendone, gli ho fatto conoscere Muffino, il mio trovatello soriano. A parte gli interessi comuni, è un amico molto presente e sensibile. Gli ho spiegato anche i miei problemi e, non è una cosa che confido a chiunque. A dirla tutta, solo la mia ex-migliore amica lo sapeva. E dopo il suo abbandono, avevo bisogno di qualcuno che mi capisse. Ci sono state sere che ho pianto al telefono mentre ascoltavo la sua voce che mi consolava. Sere in cui avevamo riso e scherzato fino a tarda notte. Per non parlare dei bisticci in chat per delle frivolezze. O altre volte, quando avevamo passato il tempo a divagare sulle più strampalate teorie fantascientifiche.  Ogni giorno era diverso dall’altro, perché non tornavamo mai sugli stessi argomenti. Col passare del tempo ho iniziato a vederlo come l’amico perfetto. So che potrà sembrare sciocco, ma dopo averlo conosciuto, sebbene non fosse fisicamente presente nella mia vita, lo sentivo vicino a me. Ovunque andassi.  Sentivo che la mia vita stava cambiando e, soprattutto, che io stavo cambiando. Finalmente, mi sentivo più sicura e meno impacciata.

E così, siamo arrivati a oggi. Abbiamo deciso di incontrarci. Non credo che, in questo caso, la mia “fobia sociale” sarà un limite. Ormai, ci conosciamo bene e non ho motivo di nascondermi. Non con lui.

...

Sono seduto su un vagone del treno, uno di quei nuovi mezzi che raggiungono velocità molto elevate. Il treno mi piace, è sicuro, comodo e porta quasi sempre all'obbiettivo predestinato, seppur con qualche ritardo. Una specie di metafora della vita. Tutti siamo destinati a seguire un certo percorso che termina sempre nello stesso posto, anche se i tempi e i modi per arrivarci sono diversi e variegati. Ma temo di stare divagando. Il motivo per cui sono qui seduto, come ho detto, è che ho una destinazione. E più precisamente si tratta di un paesino nella dolce campagna primaverile, dove avrei incontrato Jessica. Non avrei mai pensato che una ragazza del genere mi avrebbe contattato, né che avrebbe instaurato un legame di amicizia così profondo con me, considerando tutte le mie, chiamiamole "stranezze": gli attacchi d'ansia che mi colpivano spesso anche in chat, le crisi depressive e questo mio carattere curiosamente manipolatore e reticente allo stesso tempo. Ma ho trovato in lei la controparte perfetta. Nonostante le disavventure e le disgrazie che aveva patito era ancora forte, e anche nei momenti più tragici con lei, al telefono o sul computer, notavo chiaramente che non aveva bisogno di uno scoglio, una base solida su cui ricostruire tutta sé stessa (cosa che non sarei mai stato capace di essere), ma una specie di fratello che l'avrebbe guidata e sostenuta in ogni momento, e a cui rivolgere le stesse attenzioni nei momenti di bisogno.

Non potevo chiedere di meglio.

Ho cercato di lenire il dolore della perdita dell'amica e ho perfino provato a consigliarla riguardo alcune vecchie relazioni e pensieri su future, sporadiche, nuove, ma qui il mio imbarazzo è stato così evidente da farle cadere subito l'argomento. Non sono capace di pensare al lato amoroso di una relazione, oltre l'amicizia profonda non sono mai riuscito ad andare, dopo certi fatti. Lei, il mio corpo a terra sanguinante, una lama affilat...NO! Non devo ripensarci. Oggi devo dedicarmi solo a Jessica.

Lo giuro.

Ormai il treno si sta fermando, e tra la folla scorgo una figura esile e scura, sia per i lunghi capelli neri sia per l'abbigliamento molto "normale", considerando le mode che vigono al giorno d'oggi. Non era provocante, né vistosa, né altro. Una normalissima ragazza, forse solo un po' timida come impostazione. Doveva essere lei. Mi avvicino e la saluto, evidentemente mi aveva riconosciuto anche lei. Del resto le avevo descritto l'esiguo abbigliamento che avrei indossato quel giorno: pantaloni militari verde oliva, una maglia nera e un paio di occhiali da sole arancioni. Trovo questo colore molto rilassante. Sulla schiena portavo uno zaino da trekking che avevo sempre con me, che dovessi andare a far la spesa o viaggiare in altri paesi. Bisogna sempre essere pronti per ogni evenienza. Ricordo ancora quando ieri sera aveva scherzato nuovamente sul mio modo di vestirsi. "che sei, un soldatino di stagno? XD" era la frase che digitava spesso, ed ogni volta le spiegavo che i pochi soldi mi obbligavano a ripiegare su qualcosa di pratico ed economico. Ma quel ritornello non mancava mai di tornare. Il saluto potrebbe essere parso agli altri freddo, ma quella semplice stretta di mano, non forte, ma abbastanza morbida e leggera, più come se ci sfiorassimo i palmi a vicenda, valeva per noi più di mille abbracci strappalacrime e soffocanti. Semplicemente avevamo i nostri limiti e comportamenti.

La giornata è così trascorsa in maniera perfetta, né troppo lenta né troppo veloce. Abbiamo mangiato in un ristorantino quasi vuoto, che Jessica mi aveva assicurato di essere "tanto discreto e sconosciuto quanto delizioso", e così si è rivelato. Siamo poi subito usciti dal paese, per evitare di incontrare troppe persone. E per l'amore che entrambi proviamo per la natura. Mi ha mostrato dei bellissimi boschetti pieni di vita e di animali incredibilmente tranquilli al nostro passaggio, un laghetto in cui le anatre sguazzavano felici e alcuni paesaggi collinari veramente splendidi, al punto da farmi scattare alcune foto per conservarli. In tutto questo tempo abbiamo parlato come eravamo abituati in chat, il trovarsi faccia a faccia pareva non dare alcun problema, e i soliti discorsi apparentemente futili ci hanno accompagnato fino al tardo pomeriggio, dove ci siamo seduti "nel suo luogo preferito", una panchina naturale di pietra di fronte al laghetto e ad un boschetto molto rigoglioso, col sole in fronte a noi che andava via via calando e scemando nel rosso sangue.

...

Il sole stava scomparendo nella concavità formata dalle colline, mentre era inseguito pigramente da alcune nuvole rosa. Il cielo era ancora illuminato da una debole luce scarlatta. La stessa luce che si rifletteva sulle stravaganti lenti arancioni che indossava Nathan, e che lasciavano intravedere i suoi occhi scuri. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Lo sguardo era catturato da quel dipinto in continuo movimento. La giornata era arrivata sul fare della sera, e che io lo volessi o no, il nostro tempo stava giungendo al termine.  Stavo cercando di reggere tutte quante le emozioni che avevo provato nell’ arco della giornata. Iniziata dolce, e che sarebbe finita amara. Perché è così che va nelle amicizie a distanza. Quando non ci si può vedere tutti i giorni si cerca di godersi ogni minuto di compagnia e, quando arriva il momento di dirsi "ci rivedremo ancora", un sorriso dal retrogusto amaro si dipinge nei tuoi lineamenti. Ma poi, cerchi di convincerti che è così che deve andare.

Volevo fare una sorpresa a Nathan, con la scusa di invitarlo a cenare a casa mia. Poteva essere un po’ affrettato, essendo la nostra amicizia ancora molto fresca e non sapendo ancora bene tutto dell’uno e dall’ altra, ma avevo deciso di prendergli un pensiero. Era stata l’idea di una frazione di secondo. Sapete, quando vi capita di passare distrattamente di fronte alla vetrina di un negozio, e di fermarvi all’improvviso, perché qualcosa ha catturato la vostra attenzione. Può succedervi quando trovate un oggetto che vi ricorda estremamente una persona e in qualche modo, lo associate ad essa.  Così era stato per me, quando ho intravisto dalla vetrina di un negozio di caccia quella lama lucida e la forma unica di quel coltello. Un karambit. E lo avevo all’istante associato a lui, che di tutte le eccentricità che poteva avere, Nathan, amava collezionare coltelli. Aveva iniziato da quelli regalatigli dai parenti e tra il sì e il no, ora ne aveva all’incirca un centinaio. Ero sicura che lo avrebbe apprezzato.

Avevo parcheggiato la macchina nel cortile di casa.

Nathan era sceso dopo di me. Si era guardato un po’ intorno e poi, aveva commentato dicendo: «Abiti davvero in mezzo al nulla». E non aveva tutti i torti. Considerando che eravamo distanti dieci chilometri da qualsiasi centro abitato, senza un lampione ad illuminare la strada e la casa dei miei vicini era disabitata da anni. Quando glielo raccontavo in chat, diceva sempre che avevo del gran fegato ad abitare tutta sola in un posto del genere. E aveva ragione, perché di notte faceva paura persino a me. Quando ho aperto la porta di casa, Muffino ci è corso incontro, e quasi nello stesso istante il viso di Nathan si è illuminato. Quel piccolo batuffolo di pelo continuava a strusciarsi alle sue caviglie, tanto che a momenti gliele avrebbe consumate. Sembrava che il mio amico esercitasse un forte ascendente sui gatti. Lo avevo fatto accomodare in soggiorno, mentre ero andata in cucina ad affaccendarmi per preparare la cena. Non mi consideravo un cuoca eccelsa, ma avevo imparato un paio di ricette dalla nonna materna ed ero sicura, almeno, di lasciare una buona impressione. Nel mentre, Nathan era rimasto seduto sul divano a coccolare il mio gatto, guardando di quando in quando lo schermo della televisione che avevo acceso. Stava andando in onda “1000 modi per morire”, uno dei pochi programmi interessanti che riuscivo a seguire e che, in quel momento, ascoltavo distrattamente dalla cucina. Dopo mezzora di lavoro, avevo infilato nel forno una pirofila di lasagne e avevo appena finito di apparecchiare la tavola, tirando fuori qualche buon vino rosso. Quando sono ritornata in soggiorno Nathan stava guardando Real Time, mentre Muffin dormiva beatamente accoccolato sulle sue gambe.

«Spero che tu non stia impazzendo a cucinare cose troppo complicate. Non ti voglio fare impazzire». Ha detto, con un sorriso appena abbozzato sulle labbra.

«No, no». Ho risposto un po’ impacciata, ricambiando il sorriso. Stavo pensando, in quel momento, di dargli il regalo che avevo preso per lui. 

«Vado a prendere una cosa».

Non gli avevo lasciato il tempo di rispondere che già ero sparita nel corridoio. Ero andata in camera mia e avevo aperto un’anta dell’armadio, per prendere un piccolo pacchetto che avevo confezionato personalmente. Avevo usato del nastro verde per fare un piccolo fiocco, sapendo che era il suo colore preferito. Quando sono tornata in salotto, Nathan ha prima fissato me e poi, lo sguardo è scivolato sul pacchetto che tenevo in mano.  Sembrava sorpreso, anche se non aveva detto nulla.

«Ho pensato di prenderti una cosa». Ho detto, porgendogli il regalo.

...


Un coltello. Jessica mi aveva regalato un coltello. E non uno qualunque. Era un karambit, un coltello filippino con la lama ricurva all'interno per simulare l'artiglio della tigre. Nato per squarciare e sgozzare i nemici. Jessica sapeva di questa mia strana passione, ed era stata l'unica dopo anni a non provare paura di me dopo averlo scoperto. L'aveva accettata, come aveva fatto con molte altre cose. Ma il problema non era la sua opinione, il problema ero io. I coltelli hanno... una strana influenza su di me. Difficile da spiegare. Quando ne prendo uno in mano mi sento completo, ma non come si potrebbe sentire una persona comune con la sua sigaretta quotidiana o col giornale o il caffè. Esso diventa un' estensione della mia psiche, un'ala lucente che mi permette di volare e innalzarmi a quei piaceri preclusi ai più perché troppo legati ai loro beni terreni e alla loro apparente immortalità spirituale. Che sciocchi... la vita è un cammino verso la morte in cui le esperienze più stimolanti ed importanti sono proprio quelle che accelerano il cammino e ti lasciano sul bordo della fine così a lungo da dimenticarne l'esistenza della linea, al punto da vagare tra uno stato e l'altro indistintamente, quasi allo stesso tempo. Morendo dentro la vita, fuori assume un colore più forte e stimolante di quanto possa averlo nella persona più felice del mondo, e le esperienze atte ad ingrigirlo non fanno altro che ravvivarlo.

Ma era troppo presto. Non ancora. Jessica mi guardava, aspettando una qualunque reazione, e credo avesse notato il tremore che mi scuoteva da capo a piedi, perché si era un attimo bloccata. Dovevo riprendermi.

«Grazie, amica mia... È... È meraviglioso. Nessuno mi aveva mai fatto un regalo così splendido».

«Nathan». Aveva iniziato, allungando una mano incerta verso di me. Mi scostai appena.

«Scusa, sono solo un po' emozionato. Mi serve un momento per riprendermi. Puoi dirmi dov'è il bagno, per favore?». Mi indicò una porta sulla destra, mentre si voltava per tornare in cucina. Nello stanzino, mi lavai ripetutamente la faccia, sempre stringendo convulsamente il karambit in mano, le nocche bianche per lo sforzo. Non ancora, non ancora. Mi guardai allo specchio. Tutto si stava facendo rosso, il respiro diventava affannoso. Non ancora. Dov'era il mio zaino?

...

Ero tornata in cucina. Ripensavo ancora alla bizzarra reazione di Nathan. Forse, aveva reagito così perché non era solito ricevere regali. Non lo avevo mai visto così turbato, nonostante in chat fossi abituata a suoi continui sbalzi d’umore. Tentavo di convincermi che non avevo ragioni di stare in pensiero per lui. Aveva solo bisogno di qualche minuto per schiarirsi le idee e poi, sarebbe tornato il ragazzo spensierato di sempre. Quello che avevo conosciuto. L’amico che avevo tanto desiderato. Mi avvicinai al forno. Sbirciai dal vetro la pietanza che si stava cuocendo nella pirofila e ormai, era il momento di servirla in tavola. Girai la manopola e indossai i guanti da forno. Nel frattempo, avevo udito una porta chiudersi e il suono dei passi di Nathan del corridoio.

«Tutto bene?». Avevo domandato, continuando a dare le spalle al soggiorno su cui si affacciava la cucina.

«Magnificamente». Era stata la risposta che avevo ricevuto. Avevo notato che l’inflessione della sua voce era insolita. Ero abituata a sentire la voce bassa, lenta e profonda di Nathan. Quella voce che mi piaceva ascoltare perché mi infondeva un senso di tranquillità e pace. Questa volta, era molto diversa... era febbricitante, esaltata e quasi malata. Qualcosa non andava. Stavo per voltarmi indietro, quando ho avvertito un dolore lancinante alla nuca. Qualcosa mi aveva appena colpita. Sono crollata sul pavimento, mentre la vista si stava appannando.  Sono solo riuscita a distinguere un’alta figura che mi sovrastava. «Nat». Non ero riuscita a proferire altro. Immagini casuali e caotiche si susseguivano a un ritmo febbrile nella mia mente. Sentivo freddo. Poi, caldo. E infine, un suono di statico mi fischiava nelle orecchie, mentre lentamente recuperavo i sensi. Il mio corpo era intorpidito. Ho iniziato a distinguere anche altri rumori. Clangori metallici, come di strumenti che venivano disposti su un tavolino operatorio.  Quando ho riaperto gli occhi, avevo realizzato con orrore che non potevo muovermi. Il mio corpo era bloccato da quelle che parevano delle funi da alpinismo. Ero sdraiata sul tavolo della cucina. Potevo solo muovere la testa. Ho iniziato a guardarmi intorno, finché i miei occhi non si sono posati su di lui. Nathan era di fianco a me.  «C-che cosa stai fac-cendo?». Ho biascicato, cercando di sciogliere il groppo che avevo alla gola.  Sopra ai soliti indumenti, Nathan, aveva indossato un grembiule bianco. Simile a quello dei macellai. Le mani erano coperte da guanti in lattice blu scuro e, una cintura di coltelli cingeva il torace. In mano stringeva il coltello che gli avevo regalato. Mi guardava con un sorriso malato. E quello sguardo vitreo, con cui mi stava guardando, mi aveva congelato il sangue nelle vene.  Le lacrime avevano iniziato a rigarmi il volto.

...

ADESSO! Jessica era lì, legata al tavolo, pronta per la liberazione. Pronta per essere purificata dal male, dal peccato, dall'amore, ed io ero il suo Messia. Mesi e mesi a parlare, scherzare e consolarci a vicenda non erano bastati, ogni mia tecnica di persuasione non le aveva fatto capire la verità: che la morte è l'unica vita, e che solo accettando di divenire suo avatar e salvatore si può sentire ogni singolo istante che passiamo in questa terra crudele come mai è stato possibile fare. Ed ora, era giunto il momento di accorciare il suo cammino verso la luce ed aiutarla a passare il messaggio. Presi dallo zaino la maschera, la mia adorata maschera. Mi copriva tutta la parte inferiore del volto. Nera come ebano lucido, recava sulle labbra tre strisce verticali verdi, come le sbarre di una prigione. Era il mio modo di dirle che non c'era nulla di personale in quello che le stavo per fare, che ero solo un messaggero di una Verità più grande di noi e che nulla sarebbe uscito dalle mie labbra come eresia o peccato. Mi avvicinai al tavolo, su cui erano già disposti gli strumenti di redenzione. Presi un pezzo di stoffa, uno dei suoi fazzoletti, che usai insieme a del nastro per tapparle la bocca. Qualunque parola di troppo avrebbe corrotto la sua carne e il rituale. Ripresi il karambit. Era stato il suo regalo per me, ed era giusto che lo usassi per salvarla. Lentamente le afferrai le gambe e le tagliai i tendini delle caviglie e delle ginocchia, passando poi ai gomiti. La strada inizia dagli arti, strumenti principali di promiscuità e lussuria, i peccati maggiori. La fine era vicina, ma dovevo chiarirle che solo il dolore più estremo porta alla beatitudine. E solo donandosi in ogni oncia del proprio corpo si può aspirare a qualcosa di superiore.

Presi il bisturi.

Lentamente le aprii il torso, dal collo all'ombelico, stando bene attento a non sfiorarle troppo la pelle o scoprirla. Non volevo mi credesse un rivoltante maniaco sessuale. Intanto Jessica gridava, anche con il fazzoletto nella bocca sentivo gli strepiti disperati, segno che non aveva ancora capito. La guardai. Gli occhi erano accesi, vivi, bellissimi. Era già al mio livello.

Ma era tempo di farla ascendere.

“Perché mi stai facendo questo?”. “Ti prego, non farlo”. “Lasciami andare!”. “Sei un mostro!!!”. Questo doveva pensare, mentre osservava le mie mosse. Facevano tutti così. Ricordo ancora quando avevo iniziato, quando volevo sentire fino alla fine le urla e le ingiurie, ma ero giovane, e inesperto. Non sapevo che il Suo volere imponeva la massima estraneità dal rituale. Ormai avevo finito l'incisione, e le scoprii le interiora.

Il cuore pulsava, lo sentivo muoversi, agitato. Per un attimo mi persi nella contemplazione, ma poi mi riebbi. Non dovevo distrarmi, ora. Misi due grosse pentole sul fuoco e le accesi, e mentre aspettavo che raggiungessero la temperatura giusta, presi il martello, deciso a romperle la cassa toracica. Le ossa saltavano ad ogni colpo, come zucchero caramellato. Ogni volta che abbassavo il martello, Jessica chiudeva gli occhi, e un urlo sempre più debole si propagava nella cucina. Improvvisamente iniziai ad aprire le ante dei pensili. Dov'era, dov'er... Eccolo! Misi il barattolo sul tavolo e lo aprii, prendendo una manciata della fine grana bianca che si trovava in esso. Sale. Glielo versai dentro la cassa toracica.

L'urlo stavolta fu molto più forte, e gli occhi si spalancarono. Però non avevano più quella scintilla, stavano diventando vitrei, segno che ormai era sul bordo, ad un passo dalla morte. Infilai una mano nelle viscere. Nonostante il guanto, sentivo il calore che emanavano, la loro consistenza molle, e la vita che andava via via scemando da esse. Afferrai il fegato con due mani e lo strappai dalla sua sede. Con l’organo fra le mani, cercai di non nasconderle quale sarebbe stata la sua destinazione. Aprii il coperchio di una pentola, dove l'acqua che avevo versato stava già bollendo, e ce lo buttai dentro, richiudendo il tutto. Il suo sguardo emanò un guizzo di orrore, ma niente di più, il torpore la stava cogliendo. Reni, milza, intestino seguirono il fegato, accompagnati da un altro pizzico di sale e del rosmarino. Un buon odore di carne si diffuse nella cucina, tanto che Muffino si svegliò dal divano e mi raggiunse. Non aveva notato la sua padrona sul tavolo, era evidentemente troppo affamato per pensarci. Lo presi in braccio e lo accarezzai, cercando con lo sguardo la ciotola del cibo, là. Lo poggiai affianco ad essa nell'angolo e versai un po' di latte nel contenitore di plastica lì vicino. Mentre Muffino leccava il latte, avido, misi sul fuoco un pentolino ricolmo d'olio. Era il momento del tocco finale.

Le presi la testa tra le mani, cullandola, cercando di calmarla come avevo già fatto in precedenza con la mia voce. Jessica aprì leggermente gli occhi, sorridendo intontita. Non sono sicuro che mi avesse davvero riconosciuto. L'olio sprizzò dal pentolino. Mi alzai, appoggiandole delicatamente il capo al tavolo, e spensi la fiamma. Con il contenitore in mano mi misi di fianco a Jessica, tenendolo all'altezza del cuore. Lentamente, come se lo sforzo mi costasse molto, versai il contenuto sul suo corpo, che si contrasse dal dolore mentre cuore e polmoni si cuocevano nella sua stessa carne. Un ultimo urlo, uno spasmo, e tutto finì.


Riempii la ciotola di Muffino, che si gettò vorace sulla carne bollita. Non immaginava che fosse quella della sua padrona, e non avrebbe mai dovuto porsi il problema. Mentre gli accarezzavo pensoso il dorso, mi tolsi la maschera e mi leccai le labbra lentamente. Certo, la carne di gatto non è il massimo, soprattutto se riempita di interiora umane, ma com'è che diceva sempre Jessica sulle amicizie più profonde? «Ciò che comincia dolce, è destinato a finire amaro».

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